2009 – luglio – Un gommone a Piazzale Michelangelo

UN GOMMONE A PIAZZALE MICHELANGELO

Dal 22 al 29 luglio 2009: 408 ore di digiuno non-stop

Saverio Tommasi ha vissuto per sette giorni sopra un gommone, senza mangiare, rappresentando simbolicamente un viaggio dalla Libia a Lampedusa contro le galere etniche e il pacchetto “sicurezza”, per un’altra convivenza possibile. E necessaria.


Luglio 2020: una memoria che è… il presente!

Nel 2009 la Libia, i lager, le torture, i viaggi della speranza, i morti annegati e una legge, il cosiddetto “pacchetto sicurezza” che criminalizzava chi riusciva a sopravvivere, a raggiungere l’Italia.

Questa memoria è una storia di oggi ed è per questo che è ancora più terribile.

Sono trascorsi 11 anni e cosa è cambiato per la sorte dei migranti? Il governo di allora era guidato da Silvio Berlusconi ed il ministro dell’interno era il leghista Roberto Maroni. Dal governo attuale sono scomparsi il Popolo della libertà e la Lega; è composto da una coalizione scaturita da un accordo tra Movimento 5 Stelle, Partito Democratico, Italia Viva e Liberi e Uguali ed è guidato da Giuseppe Conte (Ind.) e all’Interno c’è Luciana Lamorgese (Ind.).

Ma… ancora … la Libia, i lager, le torture, i viaggi della speranza, le morti in mare per annegamento e ancora la delusione di chi riesce a approdare qui da noi e si scontra con un muro di leggi e di burocrazia che respinge.

Sembra una storia senza speranza..

Ma nel luglio del 2009 a Firenze un gruppo di associazioni fiorentine insieme all’attore Saverio Tommasi accesero una fiaccola di umanità con questa importante iniziativa di protesta.

Il Centro documentazione Carlo Giuliani fu tra le tante associazioni che dettero il loro contributo di informazione e controinformazione.

In questa pagina ne riportiamo un pezzetto di memoria.

Firenze, 27 luglio 2020


https://www.youtube.com/watch?v=ReWTDy59jPY

https://www.youtube.com/watch?v=RbNPdSIu7BQ

0274_Pacchetto_sicurezza_scheda_ddl

RAPPORTO+LIBIA

La traversata del deserto del Teneré

Emigranti nel Teneré Un reportage fotografico di Alfredo Bini, lungo le rotte dell’emigrazione a nord di Agadez, verso l’oasi di Dirkou, insieme ai convogli scortati dall’esercito nigeriano verso il nord. Ogni camion porta fino a 150 persone. E dalla Libia continuano i respingimenti verso sud.

(da http://fortresseurope.blogspot.com/2005/12/photo-gallery.html)

www.alfredobini.com

Niger – Turawet Oasis, c.100 km from Agadez. The convoy’s first stop. Turawet is a small village with about 200 inhabitants in the Air, where there is a military outpost. Every 2-3 weeks between 3000 and 4000 people on their way to the oasis of Dirkou arrive in Turawet. The migrants do not get off the trucks, but spend the night guarding their luggage from potential thieves. Some of them celebrate their success in setting off, and the villagers quickly improvise a few makeshift set-ups where food can be bought. 100 km further on the convoy will be abandoned by the soldiers, and each truck will travel onwards independently. 4 goods trucks were assaulted by bandits just a matter of minutes after this photograph was taken. The convoy of 6th April counted about 47 trucks, of which at least 25 carried an average of 130-150 migrants; once in Dirkou they will attempt to continue the journey to Lybia.

Tenere Desert.
Lat: 18, 9961 – Lon: 12, 8932.
A repatriation truck coming from Lybia. All the trucks coming from Lybia stop in Dirkou. As soon as the Dirkou authorities are informed that a truck is about to leave Agadez for Dirkou, they send a repatriation convoy which will meet the other on its way in a tragic-comical exchange of positions. This is to avoid overcrowding in the Dirkou oasis. In April 2009, with about 8000 migrants, the oasis was approaching its full capacity level.

Niger Ð Agadez. 6th April 2009. After a wait of over 8 hours in the full glare of the sun the order to move has finally arrived. The soldiers use remote-controlled planes to ensure that the area is free of bandits or rebels and in the meantime, together with the police, they check the trucks and their passengers. This precaution was not sufficient to prevent an ambush the day after departure. Four trucks, officially transporting cigarettes, were assaulted and robbed. Fortunately no passenger trucks were involved in the episode. The convoy of 6th April counted about 47 trucks, of which at least 25 were carrying an average of a 130 to a 150 migrants. Many of these, once they reach Dirkou, will attempt the Lybia route

Niger – Agadez. 6th April 2009. At last, after more than 20 days’ wait the Dirkou convoy is ready to move. 300 migrants arrive in Agadez every day and often the delays in the convoy departures cause overcrowding in the establishments which host the migrants. The convoy of 6th April counted about 47 trucks of which at least 25 were carrying migrants, with at least 130-150 passengers on board; once in Dirkou the same trucks will attempt to make for Lybia. This truck, just outside the city, is approaching the control post where soldiers and police check the documents.

Niger Ð Well of Hope 400, 7th April 2009, 400 km from Agadez. Obligatory stop on the second or third day of the journey. Objects abandoned by travelling migrants.

Fotografie tratte da Fortezza Europa:

Camion deportazioni

 

Camion deportazioni forno

Vista da dentro il camion

Campo di detenzione a Zliten

Campo sebha  -celle detenuti

Campo Sebha scorte mediche per mille detenuti

Respinti in Libia. Le foto esclusive di Paris Match

On wednesday may 6 Italian ships intercepted 227 would be immigrants at sea and sent them directly back to Libya.
On wednesday may 6 Italian ships intercepted three boatloads of migrants they were transferred to three Italian ships and by Thursday morning they were returned to Tripoli.

Una foto da Paris Match sul trattamento riservato ai migranti riportati in Libia

“Quei guanti di lattice, che servono a non toccare l’orrore, sono come il nostro pensiero, come i nostri ragionamenti sull’immigrazione-sì e l’immigrazione-no, le quote, i conteggi, i controlli, le leggi.

Le guardie di finanza usano guanti di gomma e noi usiamo guanti mentali. Proprio come loro li indossiamo per non entrare in contatto con il male fisico, con la sofferenza dei corpi.”

On wednesday may 6 Italian ships intercepted 227 would be immigrants at sea and sent them directly back to Libya.
On wednesday may 6 Italian ships intercepted three boatloads of migrants they were transferred to three Italian ships and by Thursday morning they were returned to Tripoli.

da http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/

*Alessandro Dal Lago*

Aggressione all’umanità, siamo all’avanguardia

Quando qualcuno, affamato, malato o bisognoso, bussa alla nostra porta, dovrebbe scattare un imperativo primordiale al soccorso. Questo almeno sostengono le mitologie religiose. L’umanità, prima ancora di un’astrazione filosofica, è l’espressione di questo riflesso. Anche se non crediamo al diritto naturale e tanto meno alla retorica dei diritti umani, soprattutto nell’epoca delle guerre umanitarie, sappiamo che il limite minimo della comune condizione umana è definito da quell’imperativo.

Rinviando i barconi dei migranti in Libia, il governo italiano ha deciso di rinunciare di fatto e di diritto a qualsiasi minima considerazione umana. O meglio: ha stabilito che la cittadinanza, italiana o occidentale che sia, è il requisito indispensabile perché qualcuno sia trattato da essere umano. E dunque che abbia diritto a vivere, a essere curato e trattato come una persona.

Tra i migranti respinti senza nemmeno mettere piede sul nostro sacro suolo ci sono persone in fuga dalla guerra, dagli stermini e dalla fame. Impedendo loro persino di chiedere asilo e riconsegnandoli ai porti d’imbarco, l’Italia li condanna alla detenzione, alle angherie e, come è già documentato da anni, alla morte.

Così nel nome della difesa paranoica della nostra purezza territoriale che accomuna la maggioranza di destra e parti consistenti dell’opposizione, noi rispediamo nel nulla i nostri fratelli, uomini, donne e bambini. Proprio come, a diecimila chilometri di distanza, in nome della nostra sicurezza, le nostre pallottole uccidono i bambini e le nostre bombe cancellano dalla faccia della terra cento civili in un colpo solo.

A questo punto, non c’è nemmeno bisogno di insistere nelle analisi. Il quadro appare chiaro. Dentro la nostra fortezza, norme discriminatorie, che si appoggiano a una cultura trionfante della delazione pubblica e privata, tengono in riga, nell’ombra e nello sfruttamento, gli stranieri di cui abbiamo bisogno. Fuori, c’è l’espulsione preliminare, concordata con la Libia.

Curiosi ricorsi storici: i nostri ex colonizzati, a suo tempo decimati e rinchiusi nei campi di concentramento di Graziani, si incaricano, in cambio di soldi, contratti e autostrade, di respingere e internare i profughi e gli affamati di un continente. Qui le leggi razziali, rispolverate da qualcuno, non c’entrano proprio. C’è invece quella linea, profonda come la faglia di Sant’Andrea, che separa il mondo sviluppato dal resto della terra. In un romanzo di Saramago, la penisola iberica si staccava dall’Europa. Ma ora è questa che scava un fossato incolmabile con la povertà esterna; la Lega è la punta estrema e paranoica di questa cultura del respingimento.

E in Italia, ventre d’occidente, non valgono nemmeno le finzioni umanitarie di burocrati e giuristi europei. Qui da noi, mentre la stampa si affanna intorno ai casi privati del padrone, tutto è divenuto possibile. Ma ci si sbaglierebbe a credere che la nostra sia un’eccezione. Dopotutto, il fascismo è nato in una pianura tra le Alpi e gli Appennini.

Oggi, l’Italia è l’avanguardia di un’aggressione all’umanità.


Per porre fine al flusso degli immigrati Silvio Berlusconi ha fatto votare una legge in disprezzo dei diritti dell’uomo che ridefinisce la richiesta di asilo come un delitto punibile fino a 18 mesi di prigione.

L’anno passato 3 immigrati su 4 avevano fatto richiesta di asilo politico. Il 50 per cento sono state accettate. In seguito a un accordo firmato con Gheddafi gli espulsi vengono riportati a Tripoli senza che la più elementare sicurezza e dignità vengano loro garantite.

 “Dalla Libia non si torna in patria. La vita a Tripoli è un inferno, ma dopo aver visto il deserto e dopo essere stato a Kufrah, non resta che continuare. L’Europa ormai è a pochi chilometri e la vita non ha più valore”.  (Abraham, Eritrea)

Il cosiddetto Pacchetto sicurezza  introduce il reato di clandestinità in una forma che è unica in Europa; sanzionando penalmente l’ingresso o la permanenza del singolo straniero sul territorio italiano individua come fattispecie di reato non un fatto ma «una condizione individuale, la condizione di migrante». Trasforma in reato penale la colpa di esser sopravvissuti al viaggio.


I respingimenti

LAMPEDUSA: le lacrime di Hope e Florence per i disperati riportati in Libia: i nostri mesi all’inferno

“Li hanno mandati al massacro. Li uccideranno, uccideranno anche i loro bambini. Gli italiani non devono permettere tutto questo. In Libia ci hanno torturate, picchiate, stuprate, trattate come schiave per mesi. Meglio finire in fondo al mare. Morire nel deserto. Ma in Libia no”

“Quando ho lasciato il mio villaggio ho impiegato quattro mesi per arrivare al confine libico, e lì ci hanno vendute ai trafficanti e ai poliziotti libici. Ci hanno messo dentro dei container, la sera venivano a prenderci, una ad una e ci violentavano. Non potevamo fare nulla, soltanto pregare perché quell’incubo finisse”

Le settimane, i mesi, trascorsi nelle “prigioni” libiche allestite vicino alla costa di Zuwara, non le dimenticheranno mai. “Molte di noi rimanevano incinte, ma anche in quelle condizioni ci violentavamo, non ci davano pace. Molti hanno tentato di suicidarsi, aspettavano la notte per non farsi vedere, poi prendevano una corda, un lenzuolo, qualunque cosa per potersi impiccare. Non so se era meglio essere vivi o morti. Adesso che siamo in Italia siamo più tranquille, ma non posso non stare male pensando che molte altre donne e uomini nelle nostre stesse condizioni siano state salvate in mare e poi rispedite in quell’inferno, non è giusto, non è umano, non si può dormire pensando ad una cosa del genere.

Perché lo avete fatto?”.


La vita nel deserto è appesa a un filo. Se il motore va in panne, l’auto si insabbia, o l’autista decide di abbandonare i passeggeri e tornarsene indietro da solo, è finita. Nel raggio di centinaia di chilometri non c’è altro che sabbia. Muoiono come mosche ogni mese, ma le notizie filtrano difficilmente. Ventinove maggio 2005: 11 morti di sete dopo un guasto del motore a 600 chilometri da Agadez. Otto ottobre 2004: 12 morti e 50 feriti in un incidente di un camion dell’esercito libico diretto in Niger con un carico di deportati.  Due giugno 2002: 45 morti di sete nel deserto del Sudan. Diciotto settembre 2001: 52 morti sulle piste per Tamanrasset. Diciotto maggio 2001: 140 morti nel deserto libico a sud di Murzuq. L’elenco continua fino a quota 1.069 vittime. Nel 2005 l’associazione “Sudanese

Popular Congress” indicava in 486 il numero dei sudanesi morti nel deserto e sepolti a Kufrah.

Secondo dati ufficiali, dal 1998 al 2003 più di 14.500 persone sono state abbandonate in mezzo al deserto lungo la frontiera libica con Niger, Chad, Sudan ed Egitto.


Ricordiamo la nostra storia recente

“Non c’è mai stata da quando New York è stata fondata una classe così bassa e ignorante tra gli immigrati che si sono riversati qui come gli italiani” scriveva il New York Times del 5 marzo 1882. E continuava: “Rovistano tra i rifiuti nelle nostre strade, i loro bambini crescono in luridi scantinati, pieni di stracci e ossa, o in soffitte affollate, dove molte famiglie vivono insieme, e poi vengono spediti nelle strade a fare soldi nel commercio di strada”. È la nostra storia recente. Trentacinque milioni di italiani emigrati tra il 1876 e il 1975, partiti da tutta l’Italia verso mezza Europa, le Americhe, l’Australia. Accolti come straccioni, criminali, sporchi e superstiziosi. Fino agli anni Sessanta erano gli italiani che andavano a morire lungo le frontiere. Oggi sono marocchini, kurdi, eritrei. Rileggere la nostra storia recente può aiutare ad avvicinarsi al presente con minore ostilità.

“Per secoli gli emigranti italiani hanno rischiato e perduto la vita per passare clandestinamente in Francia o in Svizzera attraverso il Piccolo San Bernardo, la Fenêtre Durand al fianco del massiccio del Gran Combin, il cammino di Rochemolle in Savoia, il pericolosissimo ghiacciao del Col Colon…”

“Il traffico era tale che solo a Napoli c’erano duecento locande sempre strapiene di poveretti in attesa dell’imbarco… Salivano clandestinamente sulle navi in porto per mischiarsi coi passeggeri regolari o le raggiungevano al largo coi bragozzi o guadagnavano il loro imbarco a Marsiglia o a Le Havre, porti dove arrivavano dopo aver passato a piedi il confine… L’andazzo era tale che ancora negli anni Settanta c’erano navi che rovesciavano gruppi di emigranti illegali sulle coste del Maine”

“Un esempio per tutti, il titolo del 27 ottobre 1927 del Corriere della Sera sull’affondamento a 90 miglia da Rio de Janeiro di quella che era stata la nave ammiraglia della nostra flotta mercantile, colata a picco col suo carico di poveretti diretti in Sud America. Tre colonne (su nove!) di spalla: «Il Principessa Mafalda naufragato al largo del Brasile. Sette navi accorse all’appello – 1.200 salvati – Poche decine le vittime». Erano 314 i morti. Ma il numero finì tre giorni dopo in un titolino in neretto corpo 7. A una colonna. E il commento del giornale, che invece di pubblicare il nome delle vittime metteva quello rassicurante dei sopravvissuti (!) tra i quali c’era il futuro «papà» del pandoro Ruggero Bauli, era tutto intonato al maschio eroismo del comandante Simone Gulì, che si era inabissato con la sua nave”